Betfage: il silenzio che prorompe nella gioia | Custodia Terrae Sanctae

Betfage: il silenzio che prorompe nella gioia

Omelia di fra Paolo Messina - Peregrinazione a Betfage (23 marzo 2024)

 

“Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre” (Lc 19,40).

Carissime sorelle e fratelli, così si chiude oggi il Vangelo che abbiamo ascoltato, in questa tappa finale del nostro pellegrinaggio quaresimale. Abbiamo meditato insieme sul silenzio. Questa immagine ci ha accompagnato nei diversi momenti di preghiera. Ne abbiamo colto le diverse sfumature. Ma oggi, questo luogo, da cui domani partirà una gioiosa e certamente rumorosa processione, sembra il meno adatto per parlare del silenzio. 

Le letture di questa liturgia si alternano tra due opposte rappresentazioni. Le parole del profeta Zaccaria sono un invito alla gioia. Eppure, il popolo vive ancora in una situazione di grande difficoltà. Zaccaria annuncia l’arrivo di un re, che giungerà e che sarà giusto e sarà salvato, sarà umile. Il primo dei tre attributi è chiaro. Egli dovrà amministrare la giustizia senza fare preferenze, nella piena fedeltà alla legge di Dio. Il secondo è più particolare, ma in fondo sottolinea il rapporto di questo re con Dio: egli sarà infatti salvato, prima di essere colui che salva. Il termine, infatti, specifica che questo re ha sperimentato la salvezza di Dio su di sé, una salvezza che non si fonda su carri e cavalli (Sal 33,16), ma sulla protezione che giunge da Dio. Questo è vero anche per noi. Se non sperimentiamo la salvezza che viene da Dio, la nostra gioia sarà effimera. Se non sperimentiamo in prima persona la salvezza che Dio opera in noi, non potremo essere strumento di salvezza per gli altri. In fondo, è quello che proclama Paolo nella lettera ai Filippesi. Gesù è nostro Salvatore perché in sé stesso ha sperimentato la redenzione che viene dal Padre. Non ha cercato una propria via di salvezza, non ha scelto scorciatoie, ma si è fatto servo, abbassandosi ancora di più fino alla morte di Croce (Fil 2,8). 

Ancora, il re descritto da Zaccaria è “umile” o “povero” (Zac 9,9). Il profeta non si riferisce, con quell’attributo, a una condizione economica dell’inviato di Dio, ma alla sua natura, capace di mettere da parte ogni orgoglio, per confidare pienamente in Dio. È la stessa scelta fatta da Gesù, che avrebbe potuto rivendicare la propria origine divina, il suo rapporto unico con il Padre, ma che, invece, volontariamente ha umiliato sé stesso, diventando in questo modo segno della gloria di Dio. Vedendo quell’uomo inchiodato sulla croce, gli uomini potranno conoscere un volto nuovo di Dio, quello di un uomo sofferente ma anche di un Dio che dona la sua vita. La venuta di questo nuovo re tanto atteso è inizio di un’epoca di pace. Egli “farà sparire il carro da guerra da Efraim e il cavallo da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato”. La gioia, infatti, sembra incompatibile con la guerra e con la morte, e questo tempo in questa terra ce lo ricorda in tutta la sua crudezza. 

Gesù arriva a Gerusalemme, la folla lo esalta ma dopo pochi giorni sarà crocifisso. Che senso ha, allora, vivere la gioia e l’esaltazione di quel giorno? Forse che Gesù non era consapevole a cosa andava incontro? Luca ha presentato tutto il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, come un itinerario in cui Lui si mostra pienamente consapevole di ciò che dovrà accadere, pronto a compiere ciò che il Padre gli comanda. La gioia di quel giorno non è oblio delle sofferenze future o delle difficoltà precedenti. È, invece, un invito a vivere con gioia anche i momenti che sembrano complicati, anche quelle situazioni che ci parlano di morte. C’è una gioia profonda che nasce dalla certezza che il Signore percorre con noi quella strada verso Gerusalemme e lo fa cavalcando una puledra, simbolo di una regalità che si afferma non con le armi, non con la sopraffazione, non con l’odio verso l’altro. Un linguaggio nuovo è quell’immagine di un Dio che cammina docilmente verso Gerusalemme. Un linguaggio che dobbiamo imparare e che siamo chiamati ad usare proprio in questi tempi di guerra e di sofferenza. La docilità come risposta alla prepotenza, un cammino di pace come risposta alla violenza, canti di gioia che vincano l’oppressione. 

Per fare questo occorre slegare quell’asino che attende nel villaggio difronte. Luca parla di “sciogliere” un legame. Usa un termine, “slegare”, che indica anche una liberazione, come nel caso della donna tenuta prigioniera da 18 anni da uno spirito immondo (Lc 13,16). Anche in quel caso Gesù “slega” la donna per darle una nuova vita, l’inizio di una nuova esistenza. 

“E se qualcuno vi domanda: «Perché lo slegate?», risponderete così: «Il Signore ne ha bisogno»” (Lc 19,31). Di che cosa ha bisogno oggi il Signore da te? Cosa dobbiamo slegare nella nostra vita per vivere veramente da discepoli? In questo tempo, credo che dobbiamo imparare a “slegare”, cioè a liberarci dal timore per affrontare con coraggio la vita; dalla tristezza per dare spazio alla gioia nella nostra vita. In questo luogo, da questa terra in particolare, penso che siamo chiamati a sciogliere, cioè a vincere il rancore per liberare la pace, il desiderio di sopraffazione per riconoscere nell’altro il fratello, l’odio per perdonare quel fratello, anche quello che ci ha ferito e ci ha fatto del male. Non c’è altra via. C’è una sola strada che conduce da Betfage a Gerusalemme. La possiamo percorrere come i farisei, che non partecipano e non vogliono prendere parte alla gioia di quel giorno, anzi vi si oppongono, tanto da voler far tacere quella folla osannante. Oppure possiamo scendere lungo il Monte degli Ulivi come i discepoli o la folla che inneggia a Gesù, ma non ha compreso pienamente dove conduce quella strada, e infatti, poco dopo, alle prime difficoltà abbandonerà Gesù. Oppure, come Gesù, possiamo scendere il Monte degli Ulivi lasciando che la gioia della salvezza, la gioia del perdono, la gioia di quella vita nuova donata da Lui riempia il nostro cuore. Gesù sa dove quella strada conduce, e la percorre con coraggio, godendo di quel giorno di festa, perché nel suo cuore sa mettere insieme gioia e sofferenza.

Gesù ha voluto compiere quel cammino tra le urla e gli inni di festa pur sapendo che andava a donare la sua vita. Altrettanto i nostri canti, la nostra gioia siano di conforto a coloro che non riescono a dire nulla, a coloro che sono nel silenzio. È possibile gioire anche nelle difficoltà, provare felicità anche in mezzo alla sofferenza. Certamente è una via nuova da percorrere, con mezzi nuovi, come quell’asino su cui nessuno era mai salito. Ma Gesù ci ha indicato la via, come incarnarla, come darle corpo, sostegno e vicinanza concreta agli ultimi. 

Sciogliamo, sleghiamo il silenzio che ci ha accompagnato in questo tempo di quaresima in un canto di lode, in un inno di esultanza perché il Signore è risorto e viene ancora a liberarci, a sciogliere per ognuno di noi le catene del peccato e della morte, per donarci la libertà e la vita. Lungo quel cammino non dobbiamo dimenticare il percorso compiuto, non dobbiamo scordare chi è solo, o soffre, o chi piange. La gioia di quel cammino non è abbandonarli alle nostre spalle come qualcosa di lontano, ma è un dare voce proprio tutti coloro che non riescono a farla sentire. Saliamo, dunque, verso Gerusalemme.