Il pane di S. Antonio

Il pane di S. Antonio

Primi vespri di s. Antonio

Carissimi fratelli, carissime sorelle,

il Signore vi dia pace!

Come ogni anno ci ritroviamo insieme per i primi vespri del nostro Santo Patrono. Nasce a Lisbona il 15 agosto del 1195 nella nobile famiglia Martins de Bulhões e viene battezzato col nome di Fernando; nel 1210 diventa Monaco Agostiniano, nel 1220 passa all’Ordine dei frati minori e prende il nome di Antonio; infine muore a Padova il 13 giugno del 1231. Come ogni anno, al termine di questa celebrazione benediremo e distribuiremo il pane di S. Antonio. È bene scoprire da dove venga questa tradizione, perché sia così radicata nella devozione popolare e quale sia il suo significato più profondo.

Anzitutto da dove viene questa tradizione?

Nella “Leggenda Rigaldina”, un testo agiografico della fine del XIII secolo, al capitolo X si raccolgono varie testimonianze di miracoli avvenuti a Padova nel 1293 e testimoniati da un frate francese, un certo Frate Pietro Raymond de Saint Romain, allora Lettore (cioè insegnante di teologia) a Padova. Questo frate riporta un miracolo avvenuto perciò 62 anni dopo la morte di Antonio, mentre lui si trovava in città: “Un bambino di venti mesi, di nome Tomasino, i cui genitori abitavano vicino alla chiesa del beato Antonio, fu lasciato imprudentemente dalla madre vicino a un recipiente pieno d’acqua. Giocando nell’acqua, forse vedendo riflessa la sua immagine e desiderando seguirla, cadde nel recipiente, con la testa in fondo e i piedi all’aria. Essendo piccolo e incapace di aiutarsi, annegò immediatamente nell’acqua del recipiente. Dopo un po’ di tempo, la madre, finiti i suoi lavori e vedendo i piedi del bambino sporgere leggermente dal recipiente, corse piangendo e gridando e lo tirò fuori dall’acqua con angoscia. Poiché era già morto e annegato, lo trovò completamente rigido e freddo. A questa vista, gemendo e piangendo, mise in subbuglio tutto il vicinato con le sue grida. Accorsero molte persone, tra cui alcuni Frati Minori con gli operai che in quel tempo stavano facendo riparazioni nella chiesa di S. Antonio. Vedendo il bambino veramente morto, condivisero il dolore e le lacrime della madre e se ne andarono come se fossero stati colpiti dalla spada della tristezza. Ma la madre, anche se il dolore le straziava il cuore, iniziò a riflettere sui meravigliosi prodigi del beato Antonio e invocò il suo aiuto per ridare vita a suo figlio morto. Fece un voto di dare ai poveri il peso del bambino in grano, se il beato Antonio lo avesse resuscitato. Poiché il bambino rimase morto dalla sera fino a mezzanotte e la madre continuava a invocare l’aiuto del beato Antonio, rinnovando frequentemente il voto, allora — cosa meravigliosa da dire! — il bambino morto rivisse con piena salute” (Leggenda Rigaldina, X,68-79).

In secondo luogo ci chiediamo perché sia così radicata questa tradizione. Nella conclusione del racconto abbiamo sentito che la madre “fa voto di dare ai poveri il peso del bambino in grano, se il beato Antonio lo avesse resuscitato”. Il grano serve ovviamente per fare il pane e il gesto di questa madre non rimane isolato ma si trasforma in una iniziativa caritativa contagiosa. Noi conosciamo il nome del bambino risuscitato “Tomasino”, ma non conosciamo il nome della madre, che rimane anonima quasi per non appropriarsi della gloria di un gesto che ha messo in moto una delle iniziative caritative più antiche e più diffuse nel mondo, quella del pane di s. Antonio. Io credo che questa iniziativa si sia diffusa e radicata nel cuore dei cristiani a tutte le latitudini perché è un gesto semplice e fondamentale, tanto simile al gesto più importante compiuto da Gesù: quello di consegnarsi a noi come Pane di Vita nell’Eucaristia.

Il Pane di S. Antonio non è un pane che noi chiediamo a S. Antonio, ma è un pane che noi doniamo con cuore riconoscente perché riconosciamo che il Signore continua a farci grazia nel corso della nostra vita, attraverso l’intercessione di questo Santo che si è dedicato intensamente ai poveri, li ha curati, difesi ed evangelizzati. E perciò, col cuore pieno di riconoscenza a Dio che opera attraverso i suoi santi, avendo riconosciuto i benefici ricevuti, mettiamo nelle mani di Antonio questo pane, perché diventi alimento e sostegno alla vita per i più poveri.

Qual è allora il significato più profondo di questo gesto? È il significato del riconoscere che tutto ciò che siamo e tutto ciò che abbiamo è dono di Dio, e che se abbiamo ricevuto tanto dobbiamo imparare a condividere ciò che abbiamo ricevuto, come Gesù Cristo. Ci ricorda san Paolo: “Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2 Cor 8,9).

Nel Sermone sul vangelo delle nozze di Cana, S. Antonio fa l’elenco delle varie opere penitenziali che purificano la nostra coscienza davanti a Dio e tra esse mette l’elemosina, cioè quel tipo di misericordia e compassione che porta a condividere i propri beni: «“Date in elemosina... e tutto per voi sarà mondo” (Lc 11,41). Come l’acqua spegne il fuoco, così l’elemosina cancella il peccato (cf. Eccli 3,33). E dice ancora l’Ecclesiastico: “L’elemosina dell’uomo è come il sacco ch’egli ha con sé. [Dio] terrà conto della generosità dell’uomo come della pupilla del suo occhio” (Eccli 17,18). L’elemosina è raffigurata nel sacco, perché ciò che in essa viene riposto sarà poi ritrovato nella vita eterna. È ciò che dice anche l’Ecclesiaste: “Getta il tuo pane sulle acque che passano”, dàllo cioè ai poveri che passano di luogo in luogo e di porta in porta, “e dopo lungo tempo”, cioè il giorno del giudizio, “lo ritroverai” (Eccle 11,1), ne avrai cioè la ricompensa: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare” (Mt 25,35). Sei pellegrino, o uomo! Porta questo sacco lungo la strada del tuo pellegrinaggio perché, quando alla sera giungerai al tuo asilo, tu possa trovarvi il pane con cui rifocillarti» (Dom I Ep n. 7).

Avendo fatto voto di vivere sine proprio, che il Signore doni anche a noi la grazia di riconoscere i benefici ricevuti e di condividere tutto ciò che siamo e tutto ciò che abbiamo, in modo tale che – come ci suggerisce lo stesso san Francesco – non tratteniamo nulla di noi per noi stessi affinché ci possa accogliere tutti e totalmente Colui che interamente a noi si offre (cfr. LOrd 29: FF 221).