La Pasqua di Mosè e di Gesù e la nostra | Custodia Terrae Sanctae

La Pasqua di Mosè e di Gesù e la nostra

La Pasqua di Mosè e di Gesù e la nostra

Dt 34, 1-12; Sal 98; Eb 3,1-6; Gv 3, 14-21

 

  1. Carissimi fratelli, il Signore vi dia pace!

 Siamo in un luogo estremamente suggestivo, il memoriale di Mosè sul Monte Nebo, il luogo ideale per allungare lo sguardo verso la Terra Santa ma anche il luogo ideale per riflettere sul senso ultimo di quel pellegrinaggio che è la nostra vita.

Da qui Mosè ha potuto vedere la Terra Promessa, o, come amava chiamarla il nostro confratello p. Pietro Kaswalder, la Terra della Promessa. Anche noi da qui possiamo intravedere la Terra donata da Dio al suo popolo per vivere in alleanza con Lui e prepararsi ad accogliere il suo Figlio.

  1. Da questo luogo possiamo far memoria di tutte le promesse che Dio ha fatto al suo popolo e ricordare che quelle promesse si sono compiute in Gesù Cristo.

A partire dall’ingresso nella Terra della Promessa, quella che noi chiamiamo la Terra Santa, il cammino della vita diventa un esercizio di sequela, un camminare sulle orme di Gesù sapendo che dobbiamo percorrere tutti i misteri della sua vita e fare Pasqua con Lui per poter giungere alla vera meta, che è entrare nel Cielo, per dirla col linguaggio della Lettera agli Ebrei (9,24), cioè nella comunione con il Dio Uno e Trino.

  1. Questo è anche un luogo importante per riflettere sul passaggio finale della nostra vita, se – come ci suggeriscono la Lettera agli Ebrei e il Vangelo di Giovanni – leggiamo la vita di Mosè come una prefigurazione della vita di Gesù e quindi anche come un modello di quello che dovrebbe essere la nostra stessa vita.

Questo è infatti il luogo in cui Mosè termina il suo cammino terreno e fa il suo passaggio pasquale. Mosè non entrerà nella Terra della Promessa, che è pur sempre una tappa intermedia, Mosè entrerà nella comunione con Dio. Non avrà più bisogno di camminare perché la meta del vivere in Dio è raggiunta e non avrà più nemmeno bisogno di aspettare di essere convocato nella tenda per poter parlare faccia a faccia con Lui, perché starà per sempre faccia a faccia, in amicizia, con il Signore.

  1. Come ho ricordato poco fa, quello che Mosè è, quello che dice e fa, ha a che fare con Gesù e ha a che fare con noi.

L’autore della Lettera agli Ebrei lo dice esplicitamente invitandoci a guardare a Gesù come il vero Sommo Sacerdote degno di fede e capace di metterci in comunione con Dio. L’evangelista Giovanni lo dice facendo riferimento all’esperienza fatta nel deserto, quando il popolo mormora contro Dio e Dio invia serpenti velenosi dai cui morsi la gente sarà guarita alzando lo sguardo verso il serpente di bronzo posto in cima a un’asta. E questo fatto viene interpretato dallo stesso Gesù come una prefigurazione e una profezia della salvezza che Egli donerà dalla Croce: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,14-17).

  1. L’incontro con Mosè deve perciò portarci all’incontro con Gesù.

E l’incontro con Gesù è quello che ci salva; è quello che ci guarisce dai morsi velenosi della cultura mondana nella quale siamo immersi; è quello che ci fa sperimentare il valore della nostra persona perché ci fa sperimentare l’amore infinito del Padre e del Figlio; è quello che ci toglie dal cuore la paura del morire che è ciò che ci rende poi meno capaci di donare noi stessi.

  1. Questo luogo ci ricorda anche che non si arriva alla meta del nostro pellegrinaggio terreno, cioè a vivere in Dio, se non si accetta di morire.

Riflettendo sul testo che abbiamo letto anche noi come prima lettura, in una bellissima meditazione dedicata alla morte di Mosè, il Cardinal Martini faceva notare che Mosé muore solo, muore obbediente e muore sofferente. Muore in una solitudine tale che nessuno sa nemmeno dove sia sepolto. Questo del Monte Nebo, infatti, è il memoriale della sua morte ma non è la sua tomba. Muore obbediente, come abbiamo sentito nel brano del Deuteronomio: “Mosè, servo del Signore, morì in questo luogo, nella terra di Moab, secondo l’ordine del Signore”. Muore sofferente, perché intravede la Terra della promessa ma non vi può entrare.

  1. Queste tre dimensioni sempre fanno parte del morire umano, le ha sperimentate lo stesso Gesù e le sperimentiamo anche noi.

Nel morire c’è una dimensione di solitudine che può portare a sentirsi perfino abbandonati da Dio. Nel morire c’è l’unica obbedienza alla quale non ci possiamo sottrarre, per quanto l’uomo contemporaneo a volte si illuda di poter sconfiggere la morte. E nel morire c’è anche una dimensione di sofferenza, perché siamo fatti per la vita e sentiamo che la morte ne è la negazione.

È alla luce della Risurrezione di Gesù, che ha assunto e vissuto in prima persona anche la solitudine, l’obbedienza e la sofferenza del morire che la morte diventa esperienza pasquale, cioè esperienza di passaggio da questa vita terrena a una forma di vita talmente piena e talmente nuova, appunto da risorti, che ci mancano le parole e l’immaginazione per descriverla.

  1. Anche nel morire di Mosè c’è però qualcosa che anticipa la Pasqua.

Secondo una lettura rabbinica del testo che abbiamo letto “Mosè morì secondo l’ordine del Signore” può essere letto “Mosè morì sulla bocca del Signore”, cioè baciato dal Signore.

Un antico racconto ebraico descrive infatti così la morte di Mosè: “Si udì una voce dal cielo che disse a Mosè: «Mosè, è la fine, il tempo della tua morte è venuto!». Mosè disse a Dio: «Ti supplico, non mi abbandonare nelle mani dell’angelo della morte!». Ma Dio scese dall’alto dei cieli per prendere l’anima di Mosè e gli disse: «Mosè, chiudi gli occhi, posa le mani sul petto e accosta i piedi!». Mosè fece come Dio gli aveva ordinato. Allora Dio baciò Mosè e prese la sua anima con un bacio della sua bocca” (G. Ravasi, Mattutino, 4.4.2005).

  1. Qui, sul Monte Nebo, chiediamo anche noi al Signore la grazia di vivere tutta la nostra vita come un pellegrinaggio sulle orme di Gesù verso quella pienezza di vita che la tradizione cristiana ci ha insegnato a chiamare in molti modi: paradiso, vita eterna, comunione con Dio, beatitudine, santità.

Chiediamo la grazia di saper sperimentare quell’amore infinito col quale Gesù ci redenti morendo per noi sulla croce. Mosè ha solo innalzato un serpente di bronzo che guariva ma non donava la vita eterna, il Padre invece ha innalzato il suo Figlio sulla Croce e lo ha donato per noi perché tutta la nostra esistenza venisse salvata portandoci a vivere in lui per sempre.

Chiediamo infine la grazia di saper vivere nella luce della Pasqua il momento finale del nostro cammino terreno, quello che tante volte ci spaventa perché si chiama morte, quello che in realtà è il momento dell’incontro personale col Signore, che ci chiama a sé con un bacio, per introdurci in una comunione di amore che non avrà fine, mai.