È iniziato il Convegno dei Formatori della Custodia | Custodia Terrae Sanctae

È iniziato il Convegno dei Formatori della Custodia

Assisi, 13-14 Febbraio 2011

Si è aperto ufficialmente il 13 febbraio, il VI Convegno per i Formatori della Custodia di Terra Santa ad Assisi. Sono convenuti insieme, da ognuna delle realtà formative della Custodia, diciotto tra Maestri di formazione e Animatori vocazionali, Responsabili degli Studi e della Formazione iniziale e permanente, per confrontarsi sul tema ‘La Formazione in tempo di rinnovamento’.

Nel giorno del 14 febbraio il primo appuntamento comune è stato la celebrazione della S. Messa nel Santuario della Porziuncola. All’omelia p. Noel Muscat, Segretario per la Formazione e gli Studi, nonché Maestro del Seminario di S. Salvatore a Gerusalemme, ha voluto paragonare le figure dei Santi oggi festeggiati, Cirillo e Metodio, alla figura di Francesco d’Assisi, ricordando il loro ardore missionario e l’ansia evangelizzatrice. Ha poi aggiunto che il ruolo del formatore consiste nel trasmettere il fuoco che ci arde dentro e che la Parola di Dio ha acceso in noi.

Ripartire dal Vangelo, dunque, da quel Vangelo che abbiamo promesso di osservare all’atto della nostra Professione religiosa! Sempre in mattinata è arrivato al Convegno, per offrire il suo qualificato contributo, il prof. Amadeo Cencini, religioso canossiano, autore di numerose opere sul tema della formazione, frutto di anni di esperienza personale nel campo, nonché psicoterapeuta e insegnante alla Pontificia Università Salesiana di Roma. Dopo aver ricordato che la formazione è un servizio e un privilegio, perché ci ‘costringe’ a formarci di continuo, ha richiamato quella legge pedagogica secondo la quale un maestro è credibile in relazione diretta a quello che dice, a quello che fa e a quello che è: su questo i formatori sono di continuo chiamati a verificarsi. Ha quindi affermato che oggi la sfida più grande non ci viene dalla mancanza di vocazioni alla vita religiosa, ma dal fatto che i nostri ineccepibili contenuti teologici non riusciamo a trasmetterli, a farli incidere nel profondo dei nostri candidati: non riusciamo cioè a trasformare la teologia in spiritualità, con il rischio che i formandi si riempiano di contenuti, ma non cambino, non facciano quella necessaria descensus ad inferos, quel cammino di faticosa conoscenza di se stessi e delle proprie debolezze, quel cammino penitenziale di vera conversione che sola può dare frutto a livello formativo e che non è lavoro solo della formazione iniziale, ma di tutta la vita del religioso. Questo significa che è necessario avere chiaro quale metodo educativo-formativo si vuole applicare per tradurre in termini pedagogici le proprie convinzioni formative. Educare significa tirare fuori (ex-ducere) la verità della persona, i suoi lati positivi e negativi, risvegliare i suoi sensi, trovare la sua inconsistenza, ciò che la blocca, che crea resistenze all’azione della Parola di Dio, che dovrebbe essere sempre ‘spada a doppio taglio’. Questo è il primo passo da compiere, alla luce della Parola di Dio e della Croce di Cristo, perché si tratta del cammino formativo di un credente e non solo di una crescita di natura psicologica. Il religioso canossiano ha quindi fatto una carrellata dei diversi percorsi metodologici che sono stati prevalentemente applicati nel corso della storia. Questa disamina storica non ha solo valore documentale, ma serve a sottolineare le attenzioni formative che bisogna avere.

Tre sono i modelli di cui p. Cencini ha parlato. Il primo è il ‘modello della perfezione’, prevalente in passato, il cui fine è la ‘conquista’ della perfezione, intesa come un punto da raggiungere e raggiunto il quale il cammino formativo sarebbe finito (non dando spazio alla docibilitas, la capacità permanente di lasciarsi educare e formare). Uno dei problemi di questo modello è che cerca di eliminare tutto quanto di umano c’è nella persona, dimenticando che io non ho ora altro luogo di incontro con Dio oltre la mia umanità, la mia finitezza, il mio limite, perché l’esperienza di Dio che mi è dato di fare in questa vita è l’esperienza della Misericordia, dell’abbraccio del Padre che si china su di me e sulle mie debolezze. Il secondo modello è quello della ‘osservanza comune’, che applica il modello della perfezione al gruppo. In questo modello la formazione è data dalla pratica delle osservanze regolari, più che da un cammino individualizzato e personale. Il terzo modello è quello della ‘autorealizzazione’, entrato in voga soprattutto dopo il Concilio Vaticano II e la sua riscoperta della dignità della persona umana. Questo modello ha il rischio di sottolineare solo quanto realizza l’umanità della persona. Il problema è in quell’‘auto’ che apre la parola: non posso essere io a decidere la mia realizzazione secondo un ‘mio’ progetto, perché la vocazione è essenzialmente risposta al progetto d’amore di un Altro.

Nel pomeriggio p. Cencini è stato sollecitato da diverse domande a chiarire ed ampliare alcuni punti della sua esposizione del mattino. Nonostante l’importanza che ha il colloquio personale, ha sottolineato che può essere pedagogicamente importante parlare al gruppo dei formandi in quanto tale della necessità di fare questo cammino di scoperta di sé, perché si avverta che si tratta di una legge generale e nessuno si senta messo sotto accusa dalla proposta di compierlo; non si dovrebbero poi accettare alla professione o agli Ordini sacri candidati che non hanno fatto questo cammino di ‘descensus ad inferos’. Ha quindi continuato a parlare dei modelli formativi, riprendendo da quello dell’autoaffermazione. Il problema è quello della stima di sé, uno dei bisogni fondamentali della persona umana, a cui i formatori sono chiamati a dare risposta. A questo punto ha inserito una parentesi psicologica sul tema dell’autostima. Questo bisogno infatti può avere uno sviluppo deficitario e allora ci possono essere problemi. Ci sono livelli di fissazione pre-somatica della propria autostima. Ci sono persone che vivono una dipendenza dalla Istituzione, che è compensativa della carente autostima (identificazione con la madre, incapacità a staccarsi dall’utero protettivo). Ci sono persone che vivono un atteggiamento continuo di contrapposizione, perché hanno avuto difficoltà nelle relazioni con la madre (abbandoni). C’è poi un livello somatico dell’autostima (legato al momento della separazione dalla madre in relazione alla percezione del proprio corpo come identità distinta): qui ci sono persone che identificano la stima di sé con l’attenzione morbosa al proprio corpo o al proprio aspetto. C’è quindi un livello psichico: la stima è legata alle proprie doti. È il livello dell’adolescente: la propria positività è posta nelle proprie capacità. Se è un livello superiore al precedente, resta comunque deficitario, perché se il mio talento diventa la fonte della positiva percezione che ho di me stesso, mi costringo a fare solo le cose che mi sento in grado di fare, senza accettare le nuove sfide della vita; inoltre si diventa dipendenti dal successo, dai risultati che si ottengono, dipendenti dal consenso degli altri e possono nascere invidie e competizioni malate. Fare un cammino penitenziale, riconoscere il proprio peccato o il proprio limite è per queste persone difficile perché non vogliono ammettere di non essere perfette. Il livello maturo dell’autostima è invece quello ontologico: la mia positività si fonda su ciò che sono (Io attuale) e ciò che sono chiamato ad essere (Io ideale). E un credente sa di essere una creatura amata da Dio, e chiamata a realizzare questa vocazione di amore. Chiarire questo discorso è prevenire un gran numero di crisi nel cammino vocazionale, crisi che operano a questo livello identitario, più che a livello affettivo-sessuale: spesso si cerca l’affetto di una persona, perché si è carenti di positiva stima di sé.

Ad una domanda che chiedeva chi debba assumere questa relazione formativa con il candidato, se il maestro o il direttore spirituale, p. Cencini ha risposto che sarebbe ideale dal punto di vista psicologico che il formando si affidasse ad una sola persona, per creare quell’alleanza terapeutica (come si direbbe in termini psicoterapeutici), cioè quella consegna nelle mani del fratello maggiore che la Fraternità mi ha messo accanto come formatore. Questo coinvolgimento è necessario per l’efficacia del cammino formativo. La presenza di troppe figure rischia di favorire i meccanismi difensivi della persona, che darà l’immagine di sé che vuole, alle differenti figure di mediazione formativa che gli sono offerte o che lui si sceglie. A questo punto il religioso canossiano ha ripreso l’analisi dei modelli formativi, iniziata la mattino. Il quarto modello formativo da porre in questione è quello dell’‘autoaccettazione’. Anche qui il problema è in quell’‘auto’, in quel ripiegamento su di sé, che non fa più spazio a Dio. Accettarsi non provoca al cambiamento: accettarsi è possibile solo attraverso la mediazione di un altro (o meglio, un Altro), che unisca in sé il massimo della comprensione e il massimo della provocazione, dello spronarmi a dare il massimo. Non posso essere io a decidere cosa è accettabile in me, ma è Dio, che mi dona il massimo e mi chiede il massimo. Ultimo modello da analizzare tra quelli più problematici è quello del ‘modulo unico’: il formatore adotta quel modello formativo nel quale si sente maggiormente competente e investe solo lì. Il rischio è di cadere negli ‘-ismi’, nell’assolutizzazione di un aspetto (spiritualismo, pietismo, volontarismo, liturgismo, intellettualismo, psicologismo, esperienzialismo, ecc.).

Nel giorno seguente vedremo il modello formativo positivo che può dare maggiori frutti nell’oggi della Chiesa.