Secondo giorno dei lavori del Convegno dei Formatori | Custodia Terrae Sanctae

Secondo giorno dei lavori del Convegno dei Formatori

Assisi, 15 febbraio 2011

Nel secondo giorno dei lavori del Convegno dei Formatori della Custodia (15 febbraio), prendendo spunto dal Vangelo del giorno (Mc 8, 14-21), p. Amedeo Cencini si è soffermato sulle domande che Gesù ha rivolto ai discepoli: “Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite?”.

Gesù parla dei sensi dei discepoli che si sono assopiti, parla delle loro inconsistenze, del blocco che agisce in loro. In fondo i formatori devono lavorare proprio sulla sensibilità dei formandi, come Gesù: i discepoli sono preoccupati del pane materiale, la loro sensibilità è attenta solo al loro bisogno immediato, ma Gesù vuole educarli alla sensibilità della fede. Ognuno ha la sensibilità che si merita, che si è costruita. Sensibilità relazionale, sensibilità morale (o coscienza), vanno educate, perché non esistono scelte neutre dal punto di vista psicologico: tutte le esperienze lasciano tracce. Il cammino formativo è come un fonte battesimale antico, in cui si entrava discendendo diversi gradini (e la formazione è sempre una immersione nel mistero pasquale, come il Battesimo). Il gradino più superficiale sono i comportamenti, l’aspetto più appariscente del formando. Se il formatore agisse solo a questo livello, ridurrebbe tutto a fariseismo. Il secondo gradino è quello degli atteggiamenti, le predisposizioni a rispondere, a reagire nelle situazioni della vita, che si sono apprese. L’ulteriore gradino è quello dei sentimenti, a cui non sempre riusciamo a dare un nome (mentre per dominarli andrebbero chiaramente identificati, pur senza doverli necessariamente manifestare): dei nostri sentimenti dobbiamo imparare ad identificare la radice, l’origine. Il quarto gradino è allora quello delle motivazioni: cioè, oltre al cosa ho fatto, dovrei chiedermi come, perché e per chi lo ho fatto. Così arriveremo a capire quale è la nostra inconsistenza centrale (ciò che gli antichi maestri di spirito chiamavano ‘difetto predominante’, la nostra debolezza radicale). Da ciò si capisce l’importanza di un vero e profondo esame di coscienza quotidiano, fatto sulla Parola di Dio del giorno e di fronte alla Croce, cioè all’Amore di Dio. (Qualche volta dovremmo anche fare un esame alla coscienza, per capire come la ho e la sto educando).

La Relazione che un maestro elabora sui candidati dovrebbe cogliere progressivamente tutti questi aspetti, ma certo, scendere i gradini più bassi lo si può fare solo se il formando ci offre la chiave per entrare in questi livelli più profondi. La vera formazione inizia quando la persona è arrivata a individuare la propria inconsistenza centrale: altrimenti il formando resta solo un ospite della Casa di Formazione e non è coinvolto nel processo formativo. Qualche anno fa’ fu fatta una ricerca dall’Istituto di Psicologia della Gregoriana su giovani seminaristi al I anno di teologia e novizi (uomini e donne) di Istituti religiosi: oltre l’85% dei testati non sapeva individuare la propria inconsistenza centrale. Ripetendo l’analisi sugli stessi individui a distanza di quattro anni, i risultati furono quasi gli stessi. Il processo formativo non era servito (quasi) a nulla! Questo squalifica la formazione. Dobbiamo chiederci come stiamo formando.

Se la terminologia usata sembra legata a categorie psicologiche, in realtà si tratta di ciò che la tradizione spirituale chiamava la ‘disciplina dei pensieri’ (cfr. Padri del deserto). Quando un formando si mette in cammino in questo percorso di descensus ad inferos, i frutti si osservano da subito, già lungo il cammino, perché cambia la prospettiva con cui la persona si vede e chiede a Dio di aiutarla a conoscersi.

Se si condivide questa impostazione, si richiede una certa attenzione nella composizione della comunità formativa: devono essere persone che convergano attorno a un certo modello (e questo spetta a chi decide l’attribuzione dei frati alle comunità), e questo modello deve essere esplicitato all’interno della comunità formativa, per evitare che i formandi percepiscano messaggi differenti o addirittura contrastanti.
I formatori dovrebbero avere riunioni periodiche per ritrovarsi su questi punti condivisi e per confrontarsi sulla valutazione dei candidati. Quando poi i formandi siano numerosi, si deve poter pensare ad aumentare il numero dei formatori strictu sensu. Questo perché i colloqui personali sono fondamentali e devono avere un certo ritmo, una certa frequenza, dovuta al fatto che il candidato tende a sviluppare delle resistenze, per sottrarsi alla fatica del lavoro su se stesso. Queste resistenze sono segno che il formatore sta lavorando bene, perché sta scavando e mettendo in discussione il formando. Se passa troppo tempo tra due incontri, le resistenze si rafforzano: il tempo ideale sarebbe quello di colloqui formativi individuali settimanali. Non si può lasciare al formando la scelta dei tempi: la formazione è un lavoro, che richiede costanza anche al formatore.
La formazione è fatta di fasi progressive: questo comporta che il lavoro formativo in equipe non vada svolto solo all’interno della comunità formativa, ma anche tra le comunità formative successive (es. tra Postulantato e Noviziato), sempre per il maggior bene del formando. Tutto quanto stiamo dicendo suppone ovviamente che anche i formatori siano in costante cammino formativo: che il formatore si conosca (cioè abbia fatto per primo quel cammino di discesa dei gradini fino alla propria inconsistenza centrale, che conosca la fatica, la solitudine, la sofferenza che questo processo comporta); che il formatore sia stato in grado di uscire dalle proprie inconsistenze, perché deve essere di aiuto per rendere il formando sempre meno dipendente dalle proprie inconsistenze; che il formatore sia anche capace di trasmettere questo processo, di provocarlo e di accompagnare il formando in esso in forma personale; che il formatore sia in grado di coniugare la conoscenza spirituale con la sapienza che viene dalla conoscenza che viene dalla grammatica dell’umano (antropologia, psico-pedagogia).

P. Cencini ha quindi chiarito che ci sono crisi essenziali (nel senso che devono esserci) nel cammino vocazionale: la prima è quella del discernimento vocazionale, la seconda è quella della scoperta della inconsistenza centrale, poi quella della propria impotenza (perché la persona comprenda che la potenza di Dio si manifesta nella sua debolezza), quarta è quella del deserto e della solitudine, quinta quella legata alla falsa immagine dell’Io (di solito bloccato al livello psichico), la sesta è la delusione della fraternità (la fraternità non deve essere compensativa dei miei bisogni affettivi: per vivere in fraternità ci vuole maturità e autonomia, capacità di solitudine), l’ultima è la crisi legata alla falsa immagine di Dio (non è l’uomo che fa esperienza di Dio, ma Dio che fa esperienza dell’uomo, mettendolo alla prova).
Tutto questo cammino di formazione dovrebbe essere ben evidenziato nella Ratio formationis di un Istituto, che è un documento fondamentale per tradurre in termini pedagogici queste convinzioni formative, che sono esemplate, come detto, sul Mistero pasquale stesso (morte e risurrezione). Questo comporta una esigenza di preparazione dei formatori: non ci si improvvisa responsabili di formazione. Il formatore inoltre non è isolato rispetto alle altre comunità della Provincia e dell’Ordine: il formando vede alle altre realtà e confronta quanto gli viene offerto con quanto vivono gli altri frati al di fuori della comunità formativa.

Nel pomeriggio il religioso canossiano ha finalmente preso in considerazione l’ultimo dei modelli formativi da analizzare, quello ‘dell’integrazione’, il modello positivo, perché costruito sul Triduo pasquale. Se la vita consacrata mira all’identificazione con i sentimenti del Figlio, la formazione non può avere altro modello che quello del Triduo pasquale, cioè il dono totale del Cristo al Padre e al mondo. Dunque si tratta di una formazione alla sensibilità pasquale, perché, come detto al mattino, la formazione è formazione della sensibilità. Il modello dell’integrazione è esattamente opposto a quello del modulo unico, perché integra prima di tutto la dimensione spirituale con la dimensione umana, l’uomo nella sua totalità, il suo passato con il suo presente, la debolezza, il peccato, l’inconsistenza e il limite con le sue qualità. Ed è contrario al modello della perfezione, perché quello è esclusivo (esclude tutto ciò che non è perfetto), questo è inclusivo (include ogni aspetto). Il processo dell’integrazione si basa sul fatto che l’essere umano ha bisogno di un centro di riferimento, diverso dal proprio Io, un punto capace di tenere insieme le polarità apparentemente contrapposte della vita (Cielo e terra, vita e morte, peccato e santità, limite e desiderio d’infinito, conscio e inconscio, luce e tenebre, ecc.). Mistero è aver trovato questo punto centrale, che però l’uomo comprende solo un po’ alla volta: è il mistero della Pasqua, mistero di Colui che con la sua morte e risurrezione, ha unito Cielo e terra, Colui che il Padre ha costituito Cuore del mondo. La formazione ha senso solo se sa scolpire la Croce di Cristo, quale centro di unità. Formazione è proporre una forma, la forma del Figlio che da la sua vita. I sensi del formando vanno svegliati perché scopra la bellezza di questo disegno del Padre su di lui. Il candidato deve scoprire che la verità della sua vita sta nel dono, ha carattere cruciforme. Quando la persona è scesa fino al punto più profondo di sé, fino al suo più estremo limite e lo soffre, lì scopre la potenza salvifica della Croce del Signore. Il risveglio spirituale consiste proprio nel cogliere nella Croce di Gesù la salvezza definitiva della sua vita. Allora il cammino formativo parte davvero dal nucleo fontale del cristianesimo, dal kerygma, dall’annuncio pasquale della salvezza in Cristo, salvezza che mi rende capace di fare la stessa cosa, cioè di essere mediatore di salvezza in unione a Cristo, nell’identificazione ai suoi sentimenti: ecco la vocazione. Questa è la vera percezione positiva di sé che l’uomo è chiamato ad avere. Formazione è piantare nel cuore del formando la Croce del Signore. Il processo dell’integrazione mira a comporre e ricomporre, costruire e ricostruire tutta la persona attorno a un centro capace di unificare tutti i frammenti della sua vita, il suo passato (dimensione diacronica) e il suo presente (dimensione sincronica). Tutto deve essere redento. Tutto deve ricevere senso da quel centro che è la Croce.

Non si possono fare i voti se non si è pacificati col proprio passato, se ancora si litiga con qualche aspetto della propria esistenza, se non lo si è sottoposto progressivamente alla Croce. Così il proprio presente, tutti i pezzi della propria personalità devono essere ricondotti a questo centro che li unifica, li salva, li fa veri. Dio ha fatto del non-senso più grande della storia, la crocifissione dell’Agnello innocente, il senso di tutto: così non c’è più nulla che possa essere assurdo dopo la Croce, perché in essa trova senso persino il non-senso della violenza che si scarica sull’Innocente, che la accetta per amore. Così il formando deve dare senso a tutto ciò che di assurdo può esserci nel suo passato o nel suo presente. Ma questo è un processo che dura tutta la vita.
Si fa formazione quando si agisce sulle tre strutture fondamentali della persona: volontà, cuore, mente. Arrivato alla propria inconsistenza centrale, il formando chiede di essere tirato fuori: e la volontà è la prima struttura su cui agire. La prima regola è che non si gratifichino le inconsistenze e quindi che si voglia smettere di gratificarle. I bisogni inconsistenti con la propria identità non vanno mai soddisfatti. Ciò che non è in linea con la propria verità va rifiutato: questo criterio psicologico può essere più esigente di un criterio morale (che potrebbe suonare: ‘mi posso spingere fino a non commettere peccato’).
L’intervento sul cuore significa generare la sensibilità della Croce, educare alla contemplazione della Croce, come massimo dell’impotenza e massimo della potenza, tutto il peccato dell’uomo e tutta la grazia di Dio, il nulla che deve essere raccolto per metterlo di fronte alla Totalità creatrice di Dio. L’intervento sulla mente vuol dire agire sulle immagini deformate che la mia inconsistenza ha creato in me, immagini che possiamo capire attraverso il simbolo dell’albero dell’inconsistenza: quali radici, anche storiche, ha la mia inconsistenza; il tronco dice quale energia psichica mi ruba la mia inconsistenza; i rami, cioè le conseguenze, nei confronti dell’Io, di Dio, degli altri, della vocazione, le cui immagini la mia inconsistenza deforma. La contemplazione della Croce dovrebbe purificare questo albero e dare nuove motivazioni, nuovi sentimenti, nuovi atteggiamenti e nuovi comportamenti.

Al termine dell’incontro pomeridiano, p. Noel ha ringraziato p. Cencini, soprattutto per la capacità che ha avuto di coniugare dati umani (psicologici soprattutto) e dati teologali. Dopo, i partecipanti al Convegno si sono ritrovati a S. Damiano per la celebrazione della S. Messa, presieduta da p. Marcelo Cichinelli, Moderatore della Formazione Permanente. Nella sua omelia ha fatto riferimento al mistero della Croce, che ha catalizzato le nostre attenzioni nel pomeriggio, e che qui si è rivelato a Francesco come mistero del Crocifisso Risorto. Al termine della celebrazione i formatori si sono intrattenuti a cena con la Fraternità di S. Damiano, mentre p. Amedeo Cencini raggiungeva Roma.