Peregrinazione al Getsemani - 15 marzo 2023

Omelia di fr. Alessandro Coniglio - Getsemani, 15 marzo 2023

Peregrinazione al Getsemani: Is 53,1-7a; Sal 30,2.6.12-13.15-17; Eb 5,7-9; Mt 26,36-46

Carissimi fratelli e sorelle, il Signore vi dia pace!

Nella prima peregrinazione di Quaresima al Dominus Flevit abbiamo cominciato a riflettere sul mistero del dolore di Dio, del suo pathos, che indica tutto il suo coinvolgimento nelle vicende dell’uomo.

La peregrinazione odierna ci mette ancora di fronte al mistero della sofferenza che Dio prova nel venire in soccorso dell’uomo peccatore, quindi di ognuno di noi, segnati fin dal nostro concepimento dall’eredità di peccato che ci hanno lasciato i primogenitori.

Nella prima lettura il profeta Isaia ha contemplato la figura misteriosa di un servo del Signore (cf. 52,13), di un uomo chiamato da Dio a una missione particolare. Questa missione si compie nel disprezzo e nel rifiuto degli uomini, delle cui sofferenze però egli si fa carico. Quest’uomo dei dolori pareva rigettato da Dio stesso, castigato e colpito da Lui, perché non è concepibile che un innocente soffra, perché la sofferenza pare sempre e solo la giusta punizione per qualche colpa commessa. Ma ecco il mistero, ecco il paradosso: quest’uomo letteralmente abbrutito dalla sofferenza, quest’uomo la cui stessa bellezza si è trasformata in deformità, in uno spasmo di dolore che lo ha reso orribile alla vista, quest’uomo non soffre per un suo delitto: soffre per le colpe degli altri, patisce i nostri dolori, le nostre sofferenze, non le sue. Il Signore ha caricato questo misterioso personaggio del peccato del mondo! Ma come? La pena, che è dovuta per la colpa commessa, non colpisce il reo, ma l’innocente? Che razza di giustizia è mai questa? Può Dio addossare a una persona le iniquità non commesse da lui? L’unico modo in cui il Signore potrebbe fare questo, senza essere un folle che schiaccia arbitrariamente un innocente al posto di un colpevole, sarebbe se facesse ricadere su Se stesso il peso di quel peccato, di cui vuole liberare colui che ne è responsabile. Questo in Isaia non è ancora detto in modo esplicito, ma sembra l’unica possibilità logica, se non vogliamo fare di Dio un sadico irragionevole… Potremmo quasi dire che l’unico modo per dare un senso a questo carme del servo sofferente sia attendere l’incarnazione di Dio, aspettarsi che quel servo sia Dio stesso venuto in forma umana, il Signore che viene a redimere il suo popolo caricandosi Egli stesso del peccato che necessita un’espiazione.

Gesù, in questo podere, chiamato Getsemani, sembra venuto apposta a compiere queste attese: egli, l’innocente, prova tristezza e angoscia, una tristezza mortale, il cui peso è così insopportabile, che Gesù cerca la compagnia e il sostegno dei suoi più intimi, dei tre discepoli testimoni del suo rapporto privilegiato con il Padre, Pietro, Giacomo e Giovanni. Il calice del dolore è così terribilmente amaro, che Gesù prega insistentemente il Padre di risparmiarglielo, di liberarlo da questa angoscia. Ma Gesù conosce la sua missione, egli sa bene che, pur essendo figlio di Dio, dovrà imparare a farsi servo, dovrà compiere quanto Isaia aveva predetto: dovrà soffrire e patire, non per i suoi peccati, non per le sue colpe, non per le sue iniquità, ma per quelle di tutti noi, per quelle di ogni uomo. Il Figlio si fa servo perché i servi possano ritornare ad essere figli. Il “Figlio imparò l’obbedienza da ciò che patì”, perché coloro che gli avrebbero obbedito potessero ricevere una salvezza eterna, secondo quanto ci ha comunicato la Lettera agli Ebrei (5,8-9).

Il Padre comincia qui a spremere suo Figlio nel torchio del Getsemani, in questo frantoio, secondo l’etimologia tradizione del nome: Gesù dovrà lasciarsi schiacciare dal peso del peccato del mondo, perché il peccato, spremuto da questa macina di dolore, lasci fluire il succo della salvezza e della misericordia divina. Nella celebrazione vigiliare della scorsa domenica, al Sepolcro, abbiamo sentito, nell’Ufficio delle letture che Dio ordina a Israele (Es 22,28): “Non ritarderai l’offerta di ciò che riempie il tuo granaio e di ciò che stilla dal tuo frantoio”. E davvero Gesù, in questo Getsemani, in questo frantoio, non ha ritardato l’offerta di tutto se stesso e si è lasciato macinare dalla volontà del Padre di salvarci.

Gesù non si sottrae all’ingrato compito. Gesù non sfugge a questo destino. Anzi, Gesù vive questa missione nel più pieno e totale abbandono. San Charles de Foucauld, nella sua celebre preghiera di abbandono, che è un commento all’episodio del Getsemani, mette sulle labbra di Gesù le stesse parole del Sal 31 che abbiamo cantato: “Alle tue mani affido il mio spirito” (e che per Luca sono anche le ultime parole pronunciate da Gesù sulla croce, prima di spirare). “Io confido in te, Signore”, continua il salmo. La preghiera di Gesù in questo luogo non è il grido di un disperato, ma l’affidamento del Figlio che si rimette, “senza riserve, con infinita fiducia” (per citare ancora Charles de Foucauld) nelle mani del Padre celeste. Certo, questo non risparmia a Gesù la sensazione dell’angoscia, non lo libera dalla sofferenza, non lo esime dal bere fino alla feccia, fino al fiele, quel calice che il Padre gli porge e che ha tutta l’amarezza del peccato umano. Quanto faccia schifo il peccato, solo Gesù lo ha sentito. Solo Gesù ha piena e perfetta coscienza di quanto orribile, quanto tremendo, quanto infinitamente riprovevole sia il peccato dell’uomo. Nessuno di noi ha mai veramente sperimentato la gravità e la profondità abissale del peccato, altrimenti non torneremmo a peccare con la superficialità e la leggerezza con cui lo facciamo. Solo il Figlio di Dio, l’innocente, ha gustato quanto immondo sia il peccato, perché lo ha assunto nella sua carne e ha lasciato che le macine della sofferenza, che è la pena dovuta per quel peccato, lo schiacciassero fino a stritolarlo, lo spremessero fino a farlo sanguinare (secondo il racconto dell’evangelista Luca, Lc 22,44). Il fatto che Gesù viva con abbandono filiale l’agonia, la lotta contro se stesso, qui nel Getsemani, non significa allora che questa prova non gli costi, anzi… Gesù trova nell’abbandono fiducioso nelle mani del Padre la forza per sopportare il peso schiacciante del peccato di cui si è caricato in piena coscienza e in perfetta libertà.

Ma Gesù ha versato anche in questo luogo “forti grida e lacrime”, se la Lettera agli Ebrei si riferisce al Getsemani (come fa la liturgia di questo santuario). Non solo il Dominus Flevit è stato testimone allora del pianto di Gesù, del pianto di Dio sulla miserevole condizione dell’uomo peccatore. Anche qui, al Getsemani, Dio in Cristo ha pianto per la sorte di Gerusalemme, cioè dell’umanità in quanto scelta e amata da Lui con amore infinito, eppure ribelle alla Sua volontà. E qui Gesù, in questo giardino, obbedendo alla volontà del Padre fino all’estremo, ripara la disobbedienza di Adamo avvenuta in un altro giardino, all’ombra non di un ulivo, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male. In virtù dell’obbedienza e dell’abbandono del Figlio Unigenito, il peccato di Adamo è rovesciato e l’accesso al giardino di Eden è riaperto. In questo sta l’esaudimento delle preghiere e suppliche offerte dal Cristo, secondo la Lettera agli Ebrei. Apparentemente la preghiera di Gesù “Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice!” non è stata esaudita: ma il Padre ha dato ascolto a questa preghiera perché facendo bere il calice della sofferenza al Figlio, ha liberato noi, fratelli di Gesù, dalla condanna che gravava su di noi. Anche il Getsemani, allora, come già il Dominus Flevit, ci conferma che Dio si è fatto sollecito dell’uomo, con tutta la passione del suo cuore divino, e a noi non resta che proseguire nell’Eucaristia, nel rendimento di grazie per questa ulteriore rivelazione dell’amore di Dio per noi.