Sir 50,1. 3-7; Sal 15,1-2.5.7-8.11; Gal 6, 14-18; Mt 11, 25-30
- Carissime sorelle e carissimi fratelli, il Signore vi dia Pace!
Papa Francesco in “Evangelii Gaudium” suggerisce che le nostre omelie dovrebbero contenere un’idea, un’immagine e un sentimento (EG 157).
- Fermiamoci allora prima di tutto sull’idea centrale che ci viene trasmessa dal Signore attraverso la vita e l’insegnamento di san Francesco. Nel Vangelo che abbiamo appena ascoltato è Gesù stesso a proclamare: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25). Che cosa è rimasto nascosto ai sapienti e ai dotti ed è stato invece rivelato dal Padre al “piccolo” – così lui stesso amava definirsi – Francesco? L’idea, l’esperienza, la consapevolezza che siamo tutti fratelli, perché tutti figli dello stesso Padre, perché tutti redenti dal sangue di Gesù, perché tutti toccati dall’azione misteriosa dello Spirito che non solo soffia dove vuole, ma dentro i nostri cuori grida “Abbà, Padre”.
Come ha evidenziato papa Francesco nell’Enciclica pubblicata ieri ad Assisi questa idea dell’essere “fratelli tutti” è una idea così forte e così illuminante che cambia il nostro modo di guardarci reciprocamente e di entrare in relazione gli uni con gli altri.
- Francesco che ha fatto l’esperienza di essere figlio del Padre si fa fratello di ognuno e vede in ogni realtà creata un fratello e una sorella. Si fa fratello del povero e del lebbroso che erano sostanzialmente espulsi dalla società; si fa fratello del ladro e del brigante, che rifiutavano le regole della società; si fa fratello del Sultano, che vive sull’altra sponda del mare, appartiene a un altro popolo e ha un altro credo religioso; percepisce come fratello il sole, come sorella la luna, come sorella e madre la terra e tutte le creature, perfino la morte.
Questa idea è talmente forte che cambia il modo di vedere non solo le relazioni tra le persone ma anche il modo di organizzare la società e l’economia, le relazioni tra i popoli e gli Stati, quelle tra le Chiese e le religioni del mondo. Cambia il modo di risolvere i problemi e i conflitti che sorgono tra le persone, tra i popoli e tra le religioni.
Ecco il mistero rivelato al piccolo Francesco, il mistero della paternità di Dio, da cui discende il dono dell’essere tutti fratelli e sorelle. Questo è ciò che è stato donato anche a noi, per pura grazia, come vocazione. È ciò che dovrebbe impegnarci costantemente, per cooperare alla nascita di quella che il santo papa Paolo VI chiamava “la civiltà dell’amore”.
- Dall’idea passiamo all’immagine, ci è suggerita dalla prima lettura tratta dal Libro del Siracide: “Ecco che nella sua vita riparò il tempio e nei suoi giorni consolidò il santuario” (Sir 50,1).
È l’immagine di Francesco che ripara e ricostruisce la Chiesa, che richiama il colloquio del Crocifisso di san Damiano col giovane Francesco, nella piccola chiesa diroccata fuori le mura di Assisi: “Francesco, non vedi che la mia casa sta cadendo? Va’ dunque e restaurala per me” (3Com 13: FF 1411).
Da quel momento Francesco si sente ferito dall’amore del Cristo crocifisso e al tempo stesso avverte di avere un compito, una vocazione, una missione: quella di riparare la Chiesa. Lo fa all’inizio con ingenuità, riparando edifici, lo farà sempre più con una testimonianza esemplare di vita evangelica, con un atteggiamento che oggi definiremmo ecumenico, con un approccio sempre costruttivo a quelli che sono i problemi della Chiesa, lo farà cioè con amore.
- Restaurare la Chiesa non è il sogno degli ingenui, ma è la visione di chi è ispirato da Dio e sperimenta che se Cristo è morto per santificare la Chiesa sua sposa noi siamo chiamati ad amarla e ripararla piuttosto che a criticarla e demolirla.
Se Cristo in croce ha versato il suo sangue per le moltitudini, cioè per l’umanità intera, noi siamo chiamati a fare tutto quello che possiamo “per attirare tutti al suo amore” (Pater 5: FF 270) e favorire tutto ciò che riconcilia anziché ciò che divide le persone, le culture e i popoli.
La chiamata di Francesco è la nostra.
Proviamo a immaginare cosa questo significhi in un contesto come quello in cui viviamo, qui in Terra Santa e in Medio Oriente, dove sperimentiamo le divisioni tra le Chiese ma anche l’anelito all’unità, dove sperimentiamo il conflitto e la divisione tra persone che appartengono a popoli e religioni diverse, dove abbiamo visto e vediamo tanta distruzione, dovuta a conflitti e guerre rispetto alle quali ci dobbiamo saper porre con lo sguardo semplice di Francesco e il suo desiderio di riparare, di riconciliare, di ricollegare, di riunire.
- Infine un sentimento. Pensando a Francesco il sentimento che subito emerge è quello della gioia, o per dirlo con una parola a lui cara quello della letizia. Non si tratta di una gioia esteriore ma di una gioia intima, profonda, che non viene meno neanche nelle circostanze più difficili della vita.
È come una grande pace che si trova nel profondo dell’anima ed è il segno della presenza dello Spirito Santo nel cuore di un uomo che si è sentito profondamente amato da Dio, esageratamente amato da Dio e da Lui salvato per sua grazia e misericordia.
È la gioia che sgorga dal cuore di chi ha colto il senso profondo e positivo di tutto ciò che esiste e il fatto che siamo incamminati, tutti, in questo pellegrinaggio che ci riconduce al Padre, assieme ad ogni uomo e ad ogni donna, ma anche insieme ad ogni creatura e all’intero creato.
Questo è il sentimento che guida Francesco anche nell’istante della morte e lo porta ad accogliere cantando “sora nostra morte corporale”, che per lui diventa “la porta della vita” (2Cel 217: FF 809).
- Che lo Spirito del Signore conceda anche a ciascuno e ciascuna di noi, come a Francesco d’Assisi la sapienza di uno sguardo fraterno su tutto e su tutti, che ci metta nel cuore lo Spirito costruttivo di chi sa riparare e riconciliare, che ci riempia il cuore di letizia, di gioia contagiosa, capace di percepire la bontà di Dio, la bontà della vita presente e la bellezza della Vita che ci aspetta.