Gn 3,9-15; Sal 129; 2Cor 4,13-5,1; Mc 3,20-35
Eccellenze, Carissime sorelle, carissimi fratelli,
il Signore vi dia pace!
- Celebriamo oggi la Messa per l’Italia, facendo memoria della istituzione della Repubblica. Per antica consuetudine, che risale alla Chiesa del I secolo e alle indicazioni che l’Apostolo Paolo dà a Timoteo (1 Tm 2,2), come Cristiani siamo chiamati a pregare per i governanti e per i Paesi nei quali viviamo e contemporaneamente siamo chiamati a ricordare che su questa terra siamo tutti pellegrini e ospiti, in cammino verso la Patria celeste.
Noi che viviamo in questa Città Santa comprendiamo particolarmente bene la distinzione tra una Gerusalemme terrena, alla quale siamo legati, nella quale abitiamo, che amiamo e una Gerusalemme celeste che dovrebbe ispirare la vita della Gerusalemme terrena e che al compimento della storia si manifesterà come la realizzazione del sogno di Dio, che è sogno di pace, di fraternità, di unità tra tutti i suoi figli.
- Viviamo in questa dimensione terrena ma teniamo fisso lo sguardo sull’orizzonte della dimensione celeste ed eterna, come ci suggerisce lo stesso san Paolo nel brano che abbiamo ascoltato come seconda lettura. Questo non significa affatto vivere da alienati o disimpegnarci rispetto alla realtà terrena, significa piuttosto collocare il nostro impegno su un orizzonte ben più profondo di quello puramente terreno.
Un cantautore laicissimo come Francesco Guccini, nella sua canzone Cirano, ha usato un verso di un’ironia tagliente per descrivere i limiti del ripiegamento su un orizzonte puramente terreno: “E voi materialisti, col vostro chiodo fisso / che Dio è morto e l’uomo è solo in questo abisso / la verità cercate per terra da maiali / tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali”.
- È perciò importante e significativo, in occasione della Festa della Repubblica Italiana, che noi preghiamo per la nostra Patria terrena, per la quale molti hanno pregato prima di noi, che molti hanno servito con lealtà, abnegazione e senso di responsabilità, per la quale molti hanno anche dato la vita. Ed è giusto e doveroso che al tempo stesso ricordiamo che la Patria finale è appunto quella Gerusalemme celeste nella quale si incontreranno come parte di un’unica fraternità e di un’unica famiglia uomini e donne “di ogni nazione, razza, popolo e lingua” (Ap 7,9). E la Gerusalemme celeste è infinitamente di più di un’ONU dello spirito.
Non dimentichiamo inoltre che la Patria non è un concetto astratto, ma una realtà concreta, fatta di persone, di comunità civili, di valori umani, culturali e religiosi che hanno plasmato ognuno di noi.
Nel corso di quest’ultimo anno, segnato dalla pandemia del Covid-19 il nostro Paese è stato tra i primi ad essere colpiti ed è stato anche tra quelli che sono stati colpiti più duramente. Al tempo stesso, proprio in questo contesto abbiamo visto di cosa ha bisogno un Paese per poter superare una prova tanto difficile: ha bisogno di unità ed ha bisogno che le persone, ciascuno secondo i propri ruoli, compiti e capacità, si assumano le proprie responsabilità.
- Proprio riflettendo su cosa è accaduto durante la pandemia, papa Francesco ci ha ricordato il valore di coloro che hanno operato in modo umile per il bene del proprio Paese: “La recente pandemia ci ha permesso di recuperare e apprezzare tanti compagni e compagne di viaggio che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. Siamo stati capaci di riconoscere che le nostre vite sono intrecciate e sostenute da persone ordinarie che, senza dubbio, hanno scritto gli avvenimenti decisivi della nostra storia condivisa: medici, infermieri e infermiere, farmacisti, addetti ai supermercati, personale delle pulizie, badanti, trasportatori, uomini e donne che lavorano per fornire servizi essenziali e sicurezza, volontari, sacerdoti, religiose,…” (FT 54).
- La stessa Parola di Dio che abbiamo appena ascoltato possiamo interpretarla su due piani distinti e complementari: uno è il piano del credente che alimenta la propria vita di fede, l’altro è il piano di chi sa che si può trarre ispirazione dal testo sacro anche se non si è credenti. Potremmo dire che possiamo fare dello stesso testo una lettura di fede che orienta e dà senso alla nostra vita, ma anche una lettura laica e secolare che sa attingere alla sapienza universale contenuta nella Parola di Dio.
In questo caso mi vengono da fare due sottolineature.
La prima è una sottolineatura del valore dell’unità, evidenziato da Gesù nel replicare a quanti lo accusavano di agire nel nome del capo dei demoni. La replica di Gesù è proverbiale: “Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non potrà stare in piedi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non potrà restare in piedi”.
Ogni organismo sociale ha bisogno di unità, che non significa uniformità o eliminazione delle differenze. Questo lo sapeva sia un servitore della Repubblica romana del V secolo a.C. come Menenio Agrippa, sia un ebreo cosmopolita fondatore di Chiese come san Paolo, sia san Clemente romano terzo successore di Pietro sulla sede di Roma. Tutti costoro propongono il corpo umano come modello di unità organica nella differenza, nell’articolazione e nel servizio reciproco, sia che si tratti di comunità civile che di comunità ecclesiale.
Più che mai oggi, anche il nostro Paese e il nostro popolo hanno bisogno di coltivare una unità organica, articolata, che abbia un’ispirazione valoriale forte com’è quella data dalla Costituzione e istituzioni capaci di rappresentare l’unità e di fare in modo che la dialettica politica non degeneri portando alla divisione.
- La seconda sottolineatura le prendo dal racconto della Genesi, che abbiamo ascoltato come prima lettura.
È quello che noi chiamiamo il racconto del “peccato originale”: dalla incapacità di fidarsi di Dio deriva poi l’incapacità di assumersi la responsabilità delle proprie azioni e l’incapacità di vivere in modo autentico le relazioni fondamentali. In certo qual modo il racconto del peccato originale mette in luce anche l’infantilismo dello scaricabarile, che è appunto l’incapacità di assumersi la responsabilità personale delle proprie azioni, scaricandola addosso ad altri.
Per il buon funzionamento di un Paese, come di una comunità, ci vuole, invece, il coraggio di assumersi le proprie responsabilità personali: ciascuno secondo le proprie capacità e secondo il proprio compito e ruolo. È stata questa la grande lezione del dopoguerra, quando tutti, dai politici fino ai cittadini più semplici, si diedero da fare. È stato questo, almeno in parte, ciò che anche la pandemia ci ha insegnato, come ricordava papa Francesco. Speriamo e preghiamo che il senso di responsabilità personale cresca sempre più, sia nella popolazione civile, sia nelle istituzioni e in coloro che le rappresentano, sia nelle comunità che compongono il Paese.
- Concludo con una provocazione salutare che papa Francesco ci ha lanciato nell’enciclica “Fratelli tutti”, lì dove ci ricorda che bisogna saper articolare il senso di patria con il senso di appartenenza alla fraternità umana universale: “Per stimolare un rapporto sano tra l’amore alla patria e la partecipazione cordiale all’umanità intera, conviene ricordare che la società mondiale non è il risultato della somma dei vari Paesi, ma piuttosto è la comunione stessa che esiste tra essi, è la reciproca inclusione, precedente rispetto al sorgere di ogni gruppo particolare. In tale intreccio della comunione universale si integra ciascun gruppo umano e lì trova la propria bellezza. Dunque, ogni persona che nasce in un determinato contesto sa di appartenere a una famiglia più grande, senza la quale non è possibile avere una piena comprensione di sé” (FT 149).
Chiediamo perciò al Signore ogni bene per l’Italia e chiediamo che sappia vivere questa sua vocazione a essere promotrice di comunione tra tutti i Paesi e tra tutti i popoli e le culture, a servizio di una fraternità davvero universale.
Così sia.